Premessa
Il
dibattito in corso sulla cosiddetta “riapertura” dei navigli
esercita un fascino suadente e illusorio perché fa
pensare ad un’esperienza di riscoperta, di scavo archeologico e di
conseguente recupero a nuova vita di beni che, nel tempo, sono stati
sottratti alla città da politiche poco lungimiranti.
La
mistificazione «è di casa nell’urbanistica moderna. Nel secolo
scorso obiettivi come il risanamento igienico e l’efficienza
viabilistica hanno fatto velo sulle vere finalità dei piani
urbanistici. Se nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale
Milano ha perso un quarto dell’edificato, in nome dell’igiene e
dell’accessibilità automobilistica la città ha conosciuto altre
due guerre in tempo di pace: quella ingaggiata dal piccone demolitore
mussoliniano e poi quella condotta dal rinnovamento urbano degli anni
della ricostruzione e del boom economico (quando si portavano a
esecuzione molti dei piani messi a punto negli anni del fascismo)»
(G. Consonni, “Dove è andata Milano. Dove andrà?”, in
ArcipelagoMilano, 9 gennaio 2018).
Il
progetto non ha nulla a che vedere con il recupero della propria
storia, concerne solo uno scavo nuovo, una reinvenzione:
la simulazione di un tracciato antico.
Nella
sua “Lettera aperta agli ‘scoperchiatori facili’ dei Navigli”
Gianni Beltrame osserva che «la questione della progressiva […]
copertura del Naviglio, non può essere capita se non la si pone in
relazione con la comprensione e la conoscenza della contemporanea
crisi e decadenza del complessivo sistema di trasporto dei Navigli
storici che la accompagna e della nascente ricerca di nuove
alternative di trasporto e di assetto urbano. […]»;
occorre, continua Beltrame «fare i conti, prima di lanciarsi
in azzardate ipotesi di rilancio della navigazione di trasporto, con
il significato e la portata della decadenza di questo decaduto e
perduto sistema. Mentre rimangono tuttora ancora aperte, urgenti e
ricche di potenzialità operative tutte possibilità di recupero per
i Navigli esterni sopravvissuti».
Il
progetto proposto appare come una inutile forzatura
che si limita ad inserire un manufatto diventato assolutamente fuori
contesto per le mutate condizioni al contorno: è del tutto evidente
infatti che la monumentalità dei navigli non sia riconducibile solo
alla loro essenza di manufatti per lo scorrimento delle acque, la
pertinenza idraulica, ma vada considerata nella sua interezza, ovvero
nella sua unità formale- funzionale storico-urbanistica.
Per
quanto sopra una tale operazione risulta culturalmente, storicamente,
urbanisticamente e perfino filologicamente senza fondamento.
Un
esempio emblematico potrebbe essere proprio dato dalla tratta di via
Melchiorre Gioia, dove oggi il naviglio Martesana restituito “en
plen air” si troverebbe a relazionarsi con un edificato alquanto
vario, non sempre gradevole e di certo non formalmente né
funzionalmente collegato a quella storia.
Sicché
la motivazione di una onerosa riapertura dei canali della Fossa
interna non può certo essere reperita nell’intento quasi romantico
di ripristinare, attraverso un segno d’acqua, un dialogo con un
paesaggio oggi in gran parte non più esistente, ed occorre semmai
cercarla altrove. Mettendo definitivamente da parte le seduzioni
facili dei pregevoli dipinti di Inganni, Migliara, Carcano e simili e
i richiami ai contenuti tra “poesia e immagini storiche come
elementi di riferimento per la comunicazione del progetto”.
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